domenica 7 febbraio 2016

La morte (speciale 1000 visualizzazioni)





"Ringrazio tutti coloro che stanno partecipando a questo progetto, 1.000 visualizzazioni in un mese sono un ottimo traguardo, ma ricordo che lo scopo di Parresia non è quello di avere successo, bensì di creare momenti unici di riflessione in ogni singolo. Preferiamo una lettura illuminata a 10.000 di passivo consenso o dissenso."



Parlare della morte non è una cosa semplice, per due motivi fondamentali: 
1)- nessuno vuole normalmente parlarne; 
2)- è un'esperienza di cui nessuno sa niente.


Queste due nozioni però sono ottimi spunti di riflessione, perchè intanto possiamo chiederci:"Perchè nessuno ne vuole parlare?"

Ecco una notizia che non sconvolge affatto: gli uomini sono mortali. E' facilmente assimilabile, chiunque può ammettere una cosa del genere senza che la propria vita ne venga scossa. Ma se io dicessi:"Tu morirai"? Le carte in tavola cambiano drasticamente, ma di fatto si è solo svolto un semplicissimo sillogismo: "Tutti gli uomini sono mortali, tu sei un uomo, quindi tu sei mortale".

Smettiamo di prendere in causa la tua persona e parliamo della vita di un altro: parliamo di Ivan Il'ič.
Dire che è un personaggio del testo di Tolstoj, "La morte di Ivan Il'ič", è riduttivo, infatti leggendo si scopre quanto in realtà Ivan sia ognuno di noi. E' l'insieme delle caratteristiche dell'uomo comune: di fatto ognuno di noi tiene al rispetto degli altri, ad una buona posizione economica, ad una famiglia "normale" (vedi le recenti manifestazioni del Family Day), ad avere belle cose, sembrare felice... Heidegger può aiutarci a comprendere queste dinamiche, che paiono celate quanto ovvie ad ognuno di noi, e cerchiamo di dare un'interpretazione più descrittiva possibile, senza giudicare: immaginiamoci un dialogo tra due colleghi di lavoro in pausa, molto tranquillo, che verte sul più e sul meno, mentre fumano una sigaretta, su qualche aneddoto in ufficio, qualche risata, magari una piccola disputa tra due modelli diversi di macchina, su qualche vaga notizia politica, il tutto intervallato da qualche agghiacciante secondo di silenzio... Questi silenzi sono ben noti a tutti, inutile che stia a descriverne meglio le caratteristiche. Provando ad "ascoltare" questi silenzi, ci possiamo accorgere di quanto siano vani i discorsi appena fatti: nelle loro certezze, non sono arrivati a nulla, non ci sono stati scambi di idee di nessun tipo, c'è stata solo una ripetizione e un'affermazione di quel sapere "comune", pubblico, che tutti ci aspettiamo dal prossimo, ma che non ha alcun fondamento. Riassumendo: come parliamo normalmente? "Chiacchierando", parlando esclusivamente per parlare, per coprire quel silenzio angosciante. Così scriviamo anche nel quotidiano: ripetiamo solo le cose lette, senza mai dire qualcosa di vero, senza cioè mai essere noi stessi. Parliamo per parlare e scriviamo per scrivere, il tutto perchè ognuno è l'altro e nessuno è se stesso.
H.Hesse, "Gran Valzer"

"Una sala chiara di candele 

e suono di speroni e oro d'alamari. 

Nelle mie vene pulsa il sangue. 

Fanciulla mia, dammi il boccale! 

E adesso al ballo! Infuria il valzer; 
infiammato dal vino arde il mio petto 
avido di ogni piacere non goduto.
Alle finestre nitrisce il mio cavallo.
E alle finestre la notte ammanta 
l'oscuro campo. Ci porta di lontano 
il vento un echeggiare di cannoni. 
Ancora un'ora prima della battaglia!
[...]"

Il silenzio dal quale tentiamo costantemente di fuggire, che è quella notte che attende l'H.Hesse poeta fuori dalla sala da ballo, è la comprensione vera, è la certezza della morte di Ivan Il'ič, che tutta la vita ha rifuggito e che solo ora che è giunta la sua morte non può più evitare.
Ricordiamo che stiamo esplorando un ambiente in cui Dio non trova posto, in cui dopo la morte c'è il nulla. Se ci fosse un Dio allora tutto avrebbe senso e la tragedia della morte diverrebbe una festa, ma come disse l'Antonius Block del Settimo Sigillo di Ingmar Bergman:


"Perché non è possibile cogliere Dio coi propri sensi? Per quale ragione si nasconde tra mille e mille promesse e preghiere sussurrate e incomprensibili miracoli? Perché io dovrei avere fede nella fede degli altri? Che cosa sarà di coloro i quali non sono capaci né vogliono avere fede? Perché non posso uccidere Dio in me stesso? Perché continua a vivere in me sia pure in modo vergognoso e umiliante anche se io lo maledico e voglio strapparlo dal mio cuore? E perché nonostante tutto egli continua a essere uno struggente richiamo di cui non riesco a liberarmi?"
Dio è, in questo contesto, una semplice speranza, un desiderio nel senso etimologico del termine: qualcosa che non c'è e che per questo ci fa sentire la sua mancanza. Così Ivan Il'ič non riuscirà fino alla fine a credere, ma diverrà piuttosto partecipe dei quel nulla che tutti attende.

Per questo non parliamo tanto spesso della morte: perchè siamo assopiti nella chiacchiera o nella religione e in più tendiamo a dimenticare cosa sia l'uomo, specchiandoci nelle cose che abbiamo. E.Fromm parla di due possibilità di vivere: avere o essere. Nel primo modo, tipico del sistema capitalistico, che vive di produzione industriale e del principio del profitto, l'equilibrio mentale viene raggiunto dall'accumulo di oggetti più o meno preziosi. La stessa identità dell'individuo si fonda sugli oggetti che esso possiede: volendo citare Fight Club:

"Tu non sei il tuo lavoro, non sei la quantità di soldi che hai in banca, non sei la macchina che guidi, né il contenuto del tuo portafogli, non sei i tuoi vestiti di marca, sei la canticchiante e danzante merda del mondo!"
Essere significa invece vivere in modo autentico, libero, accettando se stessi per quello si è e così comportarsi in modo solidale con gli altri. Vuol dire fare i conti con la morte, quindi accontentandosi delle cose indispensabili, godere l'amore come antitesi della morte nullificante, non come semplice "passatempo".

Ora chiediamoci come mai è un'esperienza di cui nessuno può dirci niente e quali sono le ripercussioni principali.

Semplicemente nessuno è mai risorto per raccontare cosa gli è successo (escludendo le così dette Near Death Experiences e i casi di resurrezione in mitologie e religioni, per motivi che non possiamo ora discutere) e non è possibile avere empatia di un morto, cioè non possiamo condividere, come invece possiamo fare con l'amore, la tristezza o la gioia, la morte di qualcuno. Il fatto non è del tutto scontato, perchè questo significa che davanti ad un morto, nessuno può veramente comprendere cosa ha davanti. La morte, per chi è vivo, non è altro che un passaggio di un uomo, da vero e proprio individuo vitale, a una cosa come una pietra, una semplice-presenza. Di una pietra noi non sentiamo niente, ci è del tutto indifferente, ma possiamo sempre prendercene cura. Così possiamo prenderci cura della salma, procedendo con i riti funebri, stendendola su un letto o dentro una teca per l'esposizione pubblica (vedi salma di Padre Pio a Roma), possiamo tenere in ordine la lapide che ne indica il luogo di sepoltura, possiamo costruire enormi strutture commemorative (Piramidi, Tombe dei Giganti, Necropoli...) ecc... Ma non potremo mai veramente capire appunto cosa si prova nel momento della morte osservando quella di un altro. Come questo fatto preclude ad ognuno l'empatia, così quando noi saremo sul punto di morire nessuno potrà veramente comprenderci. 
Significa che sul punto di morte, finalmente, saremo con noi stessi. Mai in vita capiremo meglio la nostra individualità, abbiamo passato i nostri anni a comprenderci a partire dai giudizi degli altri, ci siamo persi dietro a chiacchiericci, abbiamo vissuto nella possibilità dell'Avere, e ora, esattamente come l'attimo della nascita, possiamo tornare ad Essere finalmente noi stessi. Avvicinare la nostra morte con il suicidio non sarebbe un'azione intelligente, non in quanto è eticamente scorretto o perchè la vita offre gioie maggiori, bensì in quanto agendo sulla nostra morte ci togliamo il carattere della possibilità al morire. E' essa stessa, la possibilità, a poter permetterci di vivere quell'attimo di vero Essere. Se il discorso sul suicidio sembra non convincere, ne parleremo in altra sede per non esagerare con gli argomenti.

Con questo abbiamo forse capito meglio l'ambito della morte, abbiamo per lo meno rischiarato quella radura all'interno della quale si muove.



"Ringrazio tutti coloro che stanno partecipando a questo progetto, 1.000 visualizzazioni in un mese sono un ottimo traguardo, ma ricordo che lo scopo di Parresia non è quello di avere successo, bensì di creare momenti unici di riflessione in ogni singolo. Preferiamo una lettura illuminata a 10.000 di passivo consenso o dissenso."

2 commenti:

  1. Comincio citando una frase che hai scritto nel post:

    "Chiacchierando", parlando esclusivamente per parlare, per coprire quel silenzio angosciante.

    Ci si sente sempre in dovere di riempire i silenzi, silenzi che sono già essi stessi pieni.
    Come direbbe Fabrizio Caramagna, “Le parole si parlano, i silenzi si toccano”.
    "Coprire" è proprio la parola giusta, visto che quello che si va a fare con le parole è far scivolare sopra il silenzio un telo.
    Una calda coltre.
    Calda come la coperta stessa che usiamo per coprirci nei più freddi inverni, nelle notti di solitudine.
    Perché il silenzio ci fa sentire soli, ci fa gelare il sangue.
    Eppure, noi tutti veniamo dal Silenzio… tutto l’Universo ha avuto origine dal Silenzio: un silenzio senza tempo, un unico, grande Tutto pieno del Nulla.
    Nè tempo, nè spazio.
    Le condizioni che un qualunque fisico faticherebbe a definire anche solamente insufficienti per la propagazione di una qualunque onda sonora.

    Ecco cosa ci siamo scordati: quel silenzio che ci rende tutti uguali.
    Potremmo definire meglio il pensiero con una semplice frase.
    Scriverei, quindi:

    "Infinite lingue, un unico silenzio"

    La nostra società è la morte del silenzio e, proprio per questo, rifuggiamo costantemente dal silenzio della morte.

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  2. Io aggiungerei un terzo punto ai "motivi fondamentali" che hai elencato nell'introduzione, Riccardo:

    3) nessuno può accettarla

    Per spiegare meglio questo punto, chiamerò in causa una pellicola del 2008 che vi consiglio enormemente di visionare.
    Sto parlando di “Synecdoche, New York”: regia, soggetto e sceneggiatura di Charlie Kaufman.

    Il film narra di un regista teatrale di nome Caden con sintomi ipocondriaci alternati a reali manifestazioni di reali patologie che lo portano a riconoscere l’inevitabile avvicinarsi della Morte.
    Decide, così, di mettere in scena un nuovo spettacolo, un’opera immensa e ‘onesta', come afferma lo stesso regista: una rappresentazione dell’esistenza, è vita che si meta-vive.

    "Cominceremo a parlare sinceramente e da questo la nostra opera prenderà vita.
    […] È questo che voglio esplorare: siamo lanciati verso la morte.
    Eppure, per il momento, eccoci qui, vivi.
    Ognuno di noi sapendo che moriremo… ognuno, nel profondo, convinto che non morirà”

    (Caden, "Synecdoche, New York", 2008)

    “Ognuno, nel profondo, convinto che non morirà”... è proprio questo il punto.
    Ognuno di noi sa che dovrà morire, ma nessuno lo sa accettare; e nessuno lo sa accettare perché nessuno lo PUÓ accettare.
    Proverò a spiegarmi meglio.
    Siamo abituati a trovare un senso a qualunque cosa, è nella nostra natura.
    Il nostro cervello, per primo, cerca di dare un senso alle immagini che si imprimono sulle retine: non accetta NULLA che non sia in accordo con le nostre esperienze.
    Quante volte avrete sentito parlare di illusioni ottiche, quante volte vi sarete anche sottoposti alla loro visione?
    Vengono chiamate “illusioni” perché il nostro cervello non accetta determinate situazioni.
    Perché?
    Perché fatica a trovarne un senso, perché gli strumenti a sua disposizione non sono sufficienti e, forse, non lo saranno mai.
    Sintetizzerei questo pensiero, quindi, riscrivendolo tutto in una frase:

    "Tutto esiste dal momento in cui gli diamo un senso e tutto ha un senso dal momento in cui esiste.”

    Proprio come per le illusioni, anche alla morte (la Grande Illusione) cerchiamo di dare un senso.
    Forse perché non accettiamo che l’intera nostra esistenza non ne abbia.
    Lo stesso Stephen Hawking disse, in uno dei suoi documentari, che il senso della vita è quello che ognuno dà alla propria.
    Ma non è, forse, anche questa una prova di un’indistruttibile speranza?

    [INIZIO SPOILER]

    Nel film, Kaufman ci mette di fronte alla nostra incapacità di accettare una vita senza un senso.
    Ce la sbatte proprio in faccia, con violenza, nel finale.
    L’ormai anziano Caden è ancora in cerca di un titolo per la sua grande opera.
    Eppure non riesce a trovarlo.
    Ogni volta che mette a fuoco un momento, ecco che passa e diviene sfuocato.
    La vita è in continua evoluzione, d’altronde.
    Negli ultimi secondi del film, il vecchio Caden sembra attraversare quello che dovrebbe rappresentare il velo di Maya.
    Lo spettatore, curioso, vuole che Kaufman lo porti per mano fino ad indicargli col dito La risposta a tutto questo ricercare.
    Sentiamo, quindi, il protagonista sussurrare:

    “Finalmente so come farlo… ho un’idea… credo che tutto...”

    Non fa, però, in tempo a finire la frase che viene bruscamente interrotto dalla voce fuori campo:

    “FINE”

    Ecco che si palesa nuovamente la speranza di Caden, la sua voglia di trovare un titolo alla sua opera, una motivo ricorrente, l’impossibilità di accettare che l'intera vita non abbia un senso…

    … l’impossibilità di accettare la morte.

    [FINE SPOILER]

    Vorrei finire questo commento riscrivendo le bellissime parole di Kaufman che prendono vita nel film grazie ad un'incredibile prova d’attore del grande Philip Seymour Hoffman:

    “ […] eccoci qui, vivi.
    Ognuno di noi sapendo che moriremo… ognuno, nel profondo, convinto che non morirà"

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