mercoledì 29 agosto 2018

Jazz e filosofia

Chi l'ha detto che i filosofi non possano mettere il becco nel mondo del jazz? 

E' successo veramente: nel giugno del '97, al Conservatorio di Parigi, Jaques Derrida intervistò Ornette Coleman. Il primo: una delle menti più attraenti e acute del XX secolo, fenomenologo e padre del fortunato "decostruzionismo", una dottrina semiotica che permette di criticare non solo testi letterari e filosofici, ma anche istituzioni politiche. Il secondo: un musicista sbocciato proprio in quegli anni, considerato uno dei giganti del jazz, rivoluziona il palco sostituendo al solista virtuoso trii e quartetti sempre più articolati. 



C'è qualcosa che li unisce, un filo sottile, in fondo: l'interesse politico. Non a caso l'intervista, consultabile integralmente su UboWeb, ricade sul tema del sesso, del linguaggio e del razzismo, i temi scottanti dell'epoca:

"Lei pensa che la sua musica e il modo in cui la gente reagisce possa o debba cambiare le cose, ad esempio a livello politico, o in una relazione sessuale? Il suo ruolo di artista e compositore può (o dovrebbe) avere un effetto sullo stato delle cose?

No, non lo credo, ma ritengo che molte persone ne abbiano già fatto esperienza prima di me, e se comincio a lamentarmi, mi diranno, ‘Perché ti lamenti? Non siano cambiati a causa di questa persona che ammiriamo ben più di te, perché dovremmo cambiare grazie a te?’ Dunque di fondo non la penso così. Vivevo nel sud degli Stati Uniti quando le minoranze erano oppresse, e mi identificavo con loro attraverso la mia musica. Ero in Texas, cominciai a suonare il sassofono e a guadagnarmi da vivere per me e la mia famiglia suonando alla radio. Un giorno capitai in un posto pieno di gente che giocava d’azzardo e di prostitute, gente che litigava, e mi capitò di vedere una donna accoltellata. Pensai di dover scappare da lì. Allora dissi a mia madre che non volevo più suonare la musica, che era come aggiungere sofferenza alla sofferenza. Mi rispose, ‘Che ti è preso, vuoi che qualcuno ti paghi per la tua anima?’. Non ci avevo pensato, e quando me lo disse, è come se avessi ricevuto un nuovo battesimo.


Sua madre aveva le idee molto chiare…"

Il jazz ha quindi qualcosa da dire, trasmette messaggi chiari, vivi, a chi li sa ascoltare. Ma forse c'è di più. Un famoso scrittore ha dipinto il jazz come un flusso costante, un movimento puro, della melodia dell'improvvisatore, che come fa nascere una nota subito la fa morire per dare spazio alla successiva. Idea molto intuitiva, poetica, ma che meriterebbe un approfondimento. Quale miglior cosa, allora, di trovare un filosofo jazzista? Esiste? Certo, insegna al San Raffaele ed è un trombettista di spessore: sto parlando di Massimo Donà.




Donà ci spiega, in un'intervista al Messaggero Veneto, come e in che modo possa esistere una relazione tra filosofia e musica:

«Potremmo dire che si tratta di ambiti solo apparentemente ‘lontani’. D’altro canto, se è vero che la filosofia nasce come musica (si pensi solo alla dottrina pitagorica e all’influenza che essa ebbe sul sistema platonico), è anche vero che ogni argomentazione logica, o meglio ogni ragionamento, funzionano sempre e solamente in relazione alla “risonanza” effettivamente prodotta dal loro immediato significare. Mi spiego: cos’altro è la potenza argomentativa, se non la potenza ascrivibile a connessioni logiche e concettuali che risuonano l’una nell’altra secondo proporzioni e simmetrie perfette, e quindi capaci di incastrarsi secondo mirabili corrispondenze, come se ognuna scaturisse senza soluzione di continuità dalle altre? Insomma, qualsivoglia ragionamento sarà tanto più convincente, quanto più i legami da esso istituiti risulteranno necessari e non sostituibili. Per questo, forse, la filosofia anela, da sempre, a farsi mousiké. Per questo, forse, il demone che invitava Socrate a praticare la ‘musica’, lo invitava invero a fare filosofia, e a risolvere la filosofia in ciò cui essa forse mira da sempre: cioè, a farsi “pura musica”. Liberando il logos medesimo dalla pesantezza del concetto. A farlo vibrare cioè di quel “suono” che, da ultimo, non potrà, neppure esso, sopportare la fissità della scrittura. O anche… la sua inamovibilità; vale a dire, la mortifera articolazione cui lo costringe lo “spazio” della partitura. Ché, per natura, il suono non può ‘stare’. Nessun confine potendo mai costringerlo ad essere quello che è. D’altro canto, proprio nel Ventesimo secolo, e soprattutto grazie alla pratica jazzistica, lo stesso suono avrebbe riguadagnato la propria natura originaria; consegnandosi ad una condizione temporale e costitutivamente in-consistente di cui si sarebbe fatta testimone, in primis, la pratica improvvisativa. Una pratica, cioè, finalmente conforme allo spirito originario della musica e della filosofia che in essa avrebbe voluto-e-dovuto in ogni caso risolversi».
Siamo giunti dunque ad un buon livello di profondità: non esiste solo il messaggio che il suono veicola (politico, sociale, filosofico...), ma esiste anche il messaggio del suono stesso, che nel suo dispiegarsi nell'improvvisazione, aleatorio, abbandona il peso del concetto per librarsi nel mondo sostanziale dell'armonia. Questo non è scontato e apre ad un nuovo mondo di domande: cos'è il suono? Come possono interagire più suoni tra di loro? Cos'è la consonanza e la dissonanza? Cos'è il ritmo? Da qui inizia il lavoro del filosofo e finisce quello del musicista, ma abbiamo quindi dimostrato un assunto fondamentale: il filosofo non può che problematizzare il mondo.

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