Se dovessi avere la pazienza di spendere 5 minuti per leggere questo mio racconto breve te ne sarei grato! Ancora di più se avessi voglia di commentare critiche o osservazioni...
Grazie e buona lettura!
Se
ne stavano rannicchiati sulla sedia, i due, Aldo e Lucia, grigi in volto
ascoltavano la ventola del frigorifero. Lui spalmava del burro ghiacciato su
una fetta di pane e lei guardava fuori dalla finestra, con una sigaretta
accesa. Saranno state le 7 del mattino, la campana spezzava il freddo e le
macchine che frusciavano sotto il condominio. Non si parlavano, rimanevano
muti, sospesi in quel gelido mattino d’ottobre, dai toni così malinconici.
L’orologio faceva tic tac, ma ormai da anni non lo ascoltavano più. Le pareti,
color crema, erano tradite da aloni giallastri che diffondevano la loro grave
sentenza. Lei prese gli occhiali e se li mise addosso: la montatura era verde
chiara, quasi fluo, di quella forma tipica da occhiali da lettura, di plastica;
le lenti erano sottilissime, ma più prominenti sul basso, opache dalla
sporcizia, non vedevano una pulizia come si deve da parecchio tempo. Così anche
la vestaglia da notte di Lucia, bianca con fiori rosa, che una volta custodiva
i calori di un corpo giovane e vivo, ora rimaneva appeso sulle spalle gobbe di
un’anziana signora, con una macchia di thè sul fianco destro della settimana
scorsa. Aldo era magro magro magro, portava pantofole e calze bianche,
pantaloncini corti e una canottiera senza maniche, anch’essa bianca. Portavano
entrambi capelli bianchi e gli occhi, dio santo, parevano come due orme, come
quelle che si formano camminando in un prato innevato: volti bucati, che aprono
ad un vuoto sinistro. La televisione era accesa, appesa al muro come un
crocefisso, e a basso volume trasmetteva qualche immondizia della domenica.
Morì lenta la mattinata, così scivolando
il giorno al mezzogiorno, al dopo pranzo, al pomeriggio e infine alla sera. A
quel punto Aldo decise di fare una passeggiata in città. Pendeva la luna e
camminava per un viale quando si ricordò della conferenza. Nulla di
impegnativo, doveva solo starsene seduto in una sala del comune, su scomode
poltroncine di tessuto verde ed ascoltare. D’altronde non aveva molto altro da
fare quella sera, quindi si affrettò a prendere il tram. La macchina di ferro
arrivò con un paio di minuti di ritardo, strisciando sorniona sulle
rotaie. Provava sempre un senso di
disagio per i mezzi pubblici: si sentiva costretto, senza via di scampo, osservato
dagli estranei. Lo telefonò un amico, per scambiare due chiacchiere, ma la
conversazione fu il più formale e minimale possibile. Aveva il timore che gli
altri stessero ascoltando e si vergognava molto di ogni sillaba pronunciata.
Quindi inventò una scusa e chiuse la conversazione di fretta. Sapeva bene anche
lui quanto fosse folle tutto ciò, ma non era mai riuscito a superare le sue
tante piccole fobie. Strinse il sostegno quando il tram curvò un po’
ferocemente e si preparò ad uscire. Messo l’ultimo passo verso le porte,
incrociò per sbaglio lo sguardo di un bambino. Furono un paio di secondi di
dialogo misterioso e muto, fatto di piccolissimi gesti, normalmente trascurati.
Strinse la mano nella tasca, si schiarì la voce, si aprirono le porte e lui
uscì.
Camminò per qualche minuto, mentre il
cielo lo schiacciava come un coperchio di piombo. Quel cielo bucato dai palazzi
e impallidito da gelide nuvole bianche. Non lo guardava, fingeva non esistesse
e si distraeva pensando alla cena e guardando i cartelloni pubblicitari. Notò
che anche nei marciapiedi non si sentiva a suo agio: doveva ancora avere a che
fare con estranei, con i loro destini, ma per pochi attimi. Ognuno va per la
propria strada, talvolta fingendo di averne una, talvolta sperando che sia
quella giusta. Che fare? Sorridere? Ignorare? Vada per tenere gli occhi bassi e
guardare dove mettere i piedi. Arrivò al comune e si fece indicare la sala
conferenze da un anziano molto vivace, dai capelli bianchi come la neve e le
guance rosse come due pomodori. Salutò un paio di conoscenti, scambiò due
risate e prese posto. Le luci dopo poco si smorzarono e arrivarono i relatori,
acclamati da folti applausi. Una giornalista di fama presentava il suo nuovo
libro su un filosofo tedesco, ma purtroppo si capiva ben poco di quello che
diceva.
Era ormai da un’ora che se ne stava seduto
su quella sedia, a fissare la stanza dalla stessa identica prospettiva. Vedeva
lo sfondo appiattirsi sempre più su se stesso, perdendo profondità. Così gli
angoli diventavano meri giochi di ombre che non parlavano più di spazio, ma
solo di un plumbeo silenzio. L’interlocutrice andava avanti a parlare e lui la
ascoltava ormai con disinteresse. Le parole risuonavano farfuglianti nei suoi
timpani e ciò che capiva non era che nebbia fastidiosa. Lui stesso dopo un po’
iniziò a tremare, dai piedi alla pancia fino agli occhi, a ritmo con le parole
che con strazio intonavano la nenia penosa. Vibrava come rumore bianco, si
sintonizzava col mondo con la frequenza sbagliata, si sentiva isolato da tutto,
solipsista, naufragava sempre più in fondo. Voleva con tutto il cuore uscire,
andarsene, sentire l’aria e il sole aprigli il petto e abbracciare gli uccelli
e lavarsi il viso. Ma non ci riusciva. Non sapeva perché, ma sapeva che non ci
sarebbe mai riuscito, perché le catene gli erano fin nel midollo serrate.
Allora ascoltava quest’assurdo, lo assecondava, lo nascondeva e lo accudiva
sotto buie coperte e mai riusciva a guardarlo negli occhi. Veniva letteralmente
divorato da se stesso mentre il suo viso rimaneva grigio, impassibile, a
fissare la stanza che gli si schiantava sul naso. Si appesantiva la gola mentre
la schiena si incurvava. Pareva che il suo corpo volesse scomparire,
vaporizzarsi, non essere visto. Pareva volesse comprimersi in un minuscolo
punto, schiacciato dalla stanza.
-Devo combattere, ma come fare? La mia
mente è il mio boia dunque devo spegnerla. Suicidio? Non ne sono in grado, ci
vorrebbe troppa lucidità. Voglio ancora vivere, ma non voglio rimanere
assopito. Devo svegliarmi. Come fare? Come farebbe un altro? Dio, gli altri mi
stanno vedendo. Come mi vedranno? Non guardarli, altrimenti capiranno che vuoi sapere
come ti vedono. Ma cosa pensano di loro stessi, loro? Pensano almeno? O sono
solo parte dei muri? Sono decorazioni, allucinazioni mutevoli che stanno
spingendo le pareti contro di me? Basta! Perché prepari il collo sul logore
ceppo? Reagisci, ti prego! Come facevano quei versi… Quelli che avevi scritto
anni fa?
“Lungi
da ogni dubbio, tutto ha ora il suo posto
E
giro innamorato e danzo
L’attimo
che gesta ogni speranza.
Un
valzer che presto smarrirò nel penoso oblio.
Tu,
che sei nella Notte nera,
Non
sai dove trovarlo?
Ora
sono io che gioco come un bimbo
Che
ancora il senso della vita
Non
ha scordato.
Ma
sappi che puoi lasciar ogni lamento
E
tornare gaio al ballo dell’anima
Perché
non c’è cella qui di cui tu non sia l’architetto.” - .
La stanza aveva improvvisamente ripreso
volume, tutto si allargò, si diffuse la realtà, gli altri parevano vivi e la
giornalista diceva cose sensate. Ora vedeva meglio, tutto pareva aver ritrovato
senso, poteva essere letto in qualche modo, come mettere a fuoco l’obbiettivo.
Si sentì il sangue bollire in corpo, si guardò le mani pimpanti e sorrise.
Tutto però durò ben poco, perché tornò cieco, muto e sordo. Tornò un puntino in
un universo che si mischiava come inchiostro nell’acqua. Era tornato
quest’opprimente senso di assurdo.
-Non ce la posso fare, sto soffocando,
come faccio ad uscire? E’ troppo difficile, qualcuno mi deve aiutare, ma chi?
Non c’è più nessuno, ci sono solo io! Ho un ricordo però, quella volta ti
dissero “Il panico lo combatti solo accettandolo e prendendoti in giro”. Ok
allora fallo! Su, guarda questo pezzente che si piange addosso e si dimena,
guardalo in tutto il suo pietoso egocentrismo. Sei in un mare e stai affogando,
senti l’acqua che ti entra nei polmoni, la salsedine che ti brucia i bronchi?
La senti la vita scivolarti come sabbia tra le mani? Sei questo ora, sei un
mucchietto di ossa che si squagliano al sole. Stai delirando, annaspando per un
briciolo di senso, aggrovigliato da tutte quelle ombre scomposte. Hai però
appena vissuto un attimo di realtà, poco fa, ricordi?! Come fa a ricordarlo?
Come fa ad essergli chiaro cosa sia “poco fa”? Il tempo è un’intuizione, viene
dalle esperienze: capisci che il tempo va avanti solo perché il sole si sposta,
perché l’aria soffia, l’acqua scorre, e sempre nello stesso ordine. Ma cosa
credi che capisca adesso? Che certezze ha che il tempo esista? Solo i suoi
pensieri potrebbero, ma questi vanno dal primo all’ultimo? Sono ordinati
davvero? O sparsi o contrari o vanno a due a due o si ripetono ogni tanto per minuti
interi, o avvengono in un istante? Chi lo sa. Io sto vivendo il tempo dei miei
pensieri ora, e vanno e vengono e forse sono passate ore nel mondo, forse
secondi. Non ti deconcentrare però, devi pensare alla realtà, guardala, è lì
intorno a te!
Basta, dovete fare silenzio tutti quanti!
Lasciate che io provi ora. D’ora in
poi chiamerò per nome questo assurdo, questo bollire dell’anima… “Dora”. Guardatela negli occhi: quei tuoi
demoniaci occhi verdi, occhi di Minerva. La cosa che più odia è guardarla fissa
senza paura. E’ più timida di quanto sembri: dalle ombre pare una Chimera
famelica, ma vedete? Non è che una fanciulla nuda che cerca un velo con cui
coprirsi il corpo. Ti ho staccato la testa e ora trionfo come Davide su Golia.
Ahi questa è una battaglia antica, originaria, dell’uomo contro la sua natura.
Spero almeno che qualcun altro possa capire di cosa si tratta aver meno il
senno, sentire lo scontro colossale tra caos e ordine. Anzi ne sono certo,
perché ricordo quello scrittore…
“Voi che soffrite, voi che vegliate,
Misero gregge senza una meta,
Battelli senza stella e senza sorte –
Stranieri eppure a me così congiunti,
Voi ricambiatemi il saluto!”
Sì, proprio lui, ti ricambio il saluto, e
ora troviamo entrambi conforto. Possiamo vincere, perché il dolore è una nostra
creatura: non siamo prigionieri se non di noi stessi-.
Così la stanza tornò aperta, luminosa,
accogliente. Se ne andò dopo una mezz’ora, salutando gli amici con una
tranquillità disarmante. Gli chiesero cosa avesse, perché sosteneva ora gli
sguardi come mai prima e la voce pareva morbida e stentorea. Negli anni a
venire Aldo mantenne il nuovo tono, nonostante Dora ogni tanto tornava a fargli
visita.

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