mercoledì 31 agosto 2016

Su ciò che conta veramente nella vita


Potrebbe essere che la vita sia una gran fregatura. A volte penso a quelli che, come me, stanno o hanno già dedicato tutta la vita per un certo obbiettivo, come lo studio di una materia, una scalata sociale, l’accumulo di ricchezza… E a volte penso a come tutto ciò possa essere in realtà una gran fregatura. Pensiamo di sapere quello che vogliamo, siamo nel mondo e sappiamo che lavorare, fare grandi opere, sia la cosa migliore da fare. Ma una volta passati a miglior vita, cosa importerà? O meglio, nell’attimo prima di morire, quanto conforteranno le nostre mute opere?
Forse le cose stanno come disse Bobbio: alla fine l’unica vera cosa che conta nella vita sono i buoni rapporti umani che abbiamo creato in vita. Ma allora mi chiedo: sono più felice io che studio dalla mattina alla sera, o il mio vicino sfaticato, che vive spensierato e dedica la sua vita a veri rapporti con gli altri? Cosa mai potrà servire dedicare tutta una vita alle opere, se mancano il dare amore: precetto tanto propugnato dalla religione e di così ottime intenzioni? Vale allora la pena mollare tutto e dedicarsi agli uomini? No. Almeno non lo riesco ancora a pensare pienamente. Penso invece che si possa fare una cosa, uno sforzo, che potrebbe determinare la propria vita in modo radicale: riflettere su cosa si voglia veramente.


Noi nasciamo in un ordine politico: siamo zoon politikon, a partire dalla famiglia, per poi entrare nella società civile e auspicare l’avvento dello Stato (hegelianamente parlando). Dunque non siamo mai soli, ci sosteniamo a vicenda, volenti o nolenti, indipendentisti o comunitari, comunque vogliamo definirci, nasciamo in una trama di relazioni di idee e fin da piccoli le assorbiamo. Crescendo lo facciamo con sempre meno passività. Ma in tutto questo tempo ci siamo mai ascoltati? Abbiamo mai fatto lo sforzo di dire: cosa voglio veramente io? Sembra anzi impossibile, in questi termini, che possa esistere una vera volontà indipendente: averne una significa avere qualcosa fin dalla nascita, avere un’idea di bene, di felicità, quindi di male, di torto, di offesa… almeno fin dal primo secondo di nascita. Platone parla di idee innate, ma sarebbe assurdo volerlo applicare al nostro discorso: era un pensatore antico e non si può fare un collage di estratti di idee decontestualizzate. Bisogna decidere, out-out, e la domanda è questa: la morale è innata? Volendo rispondere in base al sentimento più affermato nel ‘900 dovremmo dire no. Ed è ciò che sono spinto purtroppo anche io a dire, anche se fa male. Possiamo dire che è così perché Dio è morto e chi non intende è un mercante che ride davanti al pazzo con la lanterna in mano (rimando a Nietzsche). La morale è una costruzione storica, cambia di anno in anno perché cambiano i valori che riconosciamo come validi. Pensare di nascere con dei principi interni è assurdo. Noi impariamo a comportarci vivendo, nessuno nasce già moralmente costruito.

Morale della favola? Fin ora penso a questo: nessuno ha una vera e propria personalità propria. Siamo tutti dei collage di esperienze vissute, educatori, parenti, amici… Non sapremo mai veramente quello che vogliamo, ma quello che non turba questo aggroviglio di identità: per questo ci rende felici stare bene con gli altri. Non siamo zoon politikon solo perché siamo fisicamente insieme agli altri, ma perché la nostra psicologia è gli altri. Noi nasciamo spugne e assorbiamo quello che troviamo sul momento. Il caso (misto alle leggi della selezione naturale) determinerà se prima o poi quello che abbiamo assorbito sarà conflittuale o complementare a ciò che troveremo in futuro davanti a noi. Non c’è nulla di più consono a questa teoria che dire che ciò che conta veramente nella vita sono i rapporti umani.


Tutto questo discorso poggia su un’idea di psicologia: noi siamo un po’ come quei libri che lasciano fuori dai ristoranti o dai musei, su cui tutti scrivono, chi con più attenzione, chi con meno, firme, frasi o commenti. Nasciamo completamente bianchi, ma abbiamo in noi delle regole come il fatto che gli altri possano scrivere, che l’inchiostro può durare più o meno tanto e che magicamente le cose scritte possono interagire tra loro. E’ essenziale che le scritte nel nostro libro siano in relazione, di due tipi: conflittuale o pacifico (sarebbe bello sviscerare tutti i possibili tipi di relazione, ma per ora mi trovo costretto a dover fare una banale dicotomia buono-cattivo). Non so dire se questa sia il modo migliore di vedere le cose.

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