Potrebbe essere che la vita sia una gran fregatura. A volte
penso a quelli che, come me, stanno o hanno già dedicato tutta la vita per un
certo obbiettivo, come lo studio di una materia, una scalata sociale, l’accumulo
di ricchezza… E a volte penso a come tutto ciò possa essere in realtà una gran
fregatura. Pensiamo di sapere quello che vogliamo, siamo nel mondo e sappiamo
che lavorare, fare grandi opere, sia la cosa migliore da fare. Ma una volta
passati a miglior vita, cosa importerà? O meglio, nell’attimo prima di morire,
quanto conforteranno le nostre mute opere?
Forse le cose stanno come disse
Bobbio: alla fine l’unica vera cosa che conta nella vita sono i buoni rapporti
umani che abbiamo creato in vita. Ma allora mi chiedo: sono più felice io che
studio dalla mattina alla sera, o il mio vicino sfaticato, che vive spensierato
e dedica la sua vita a veri rapporti con gli altri? Cosa mai potrà servire
dedicare tutta una vita alle opere, se mancano il dare amore: precetto tanto
propugnato dalla religione e di così ottime intenzioni? Vale allora la pena
mollare tutto e dedicarsi agli uomini? No. Almeno non lo riesco ancora a
pensare pienamente. Penso invece che si possa fare una cosa, uno sforzo, che
potrebbe determinare la propria vita in modo radicale: riflettere su cosa si
voglia veramente.
Noi nasciamo in un ordine politico: siamo zoon politikon, a
partire dalla famiglia, per poi entrare nella società civile e auspicare l’avvento
dello Stato (hegelianamente parlando). Dunque non siamo mai soli, ci sosteniamo
a vicenda, volenti o nolenti, indipendentisti o comunitari, comunque vogliamo
definirci, nasciamo in una trama di relazioni di idee e fin da piccoli le
assorbiamo. Crescendo lo facciamo con sempre meno passività. Ma in tutto questo
tempo ci siamo mai ascoltati? Abbiamo mai fatto lo sforzo di dire: cosa voglio
veramente io? Sembra anzi impossibile, in questi termini, che possa esistere
una vera volontà indipendente: averne una significa avere qualcosa fin dalla
nascita, avere un’idea di bene, di felicità, quindi di male, di torto, di
offesa… almeno fin dal primo secondo di nascita. Platone parla di idee innate,
ma sarebbe assurdo volerlo applicare al nostro discorso: era un pensatore
antico e non si può fare un collage di estratti di idee decontestualizzate.
Bisogna decidere, out-out, e la domanda è questa: la morale è innata? Volendo
rispondere in base al sentimento più affermato nel ‘900 dovremmo dire no. Ed è
ciò che sono spinto purtroppo anche io a dire, anche se fa male. Possiamo dire
che è così perché Dio è morto e chi non intende è un mercante che ride davanti
al pazzo con la lanterna in mano (rimando a Nietzsche). La morale è una
costruzione storica, cambia di anno in anno perché cambiano i valori che
riconosciamo come validi. Pensare di nascere con dei principi interni è
assurdo. Noi impariamo a comportarci vivendo, nessuno nasce già moralmente
costruito.
Morale della favola? Fin ora penso a questo: nessuno ha una
vera e propria personalità propria. Siamo tutti dei collage di esperienze
vissute, educatori, parenti, amici… Non sapremo mai veramente quello che
vogliamo, ma quello che non turba questo aggroviglio di identità: per questo ci
rende felici stare bene con gli altri. Non siamo zoon politikon solo perché siamo
fisicamente insieme agli altri, ma perché la nostra psicologia è gli altri. Noi
nasciamo spugne e assorbiamo quello che troviamo sul momento. Il caso (misto
alle leggi della selezione naturale) determinerà se prima o poi quello che
abbiamo assorbito sarà conflittuale o complementare a ciò che troveremo in
futuro davanti a noi. Non c’è nulla di più consono a questa teoria che dire che
ciò che conta veramente nella vita sono i rapporti umani.
Tutto questo discorso poggia su un’idea di psicologia: noi
siamo un po’ come quei libri che lasciano fuori dai ristoranti o dai musei, su
cui tutti scrivono, chi con più attenzione, chi con meno, firme, frasi o
commenti. Nasciamo completamente bianchi, ma abbiamo in noi delle regole come
il fatto che gli altri possano scrivere, che l’inchiostro può durare più o meno
tanto e che magicamente le cose scritte possono interagire tra loro. E’
essenziale che le scritte nel nostro libro siano in relazione, di due tipi:
conflittuale o pacifico (sarebbe bello sviscerare tutti i possibili tipi di
relazione, ma per ora mi trovo costretto a dover fare una banale dicotomia
buono-cattivo). Non so dire se questa sia il modo migliore di vedere le cose.
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