Dora
Pendeva la luna e camminava per un viale
quando si ricordò della conferenza. Nulla di impegnativo, doveva solo starsene
seduto in una sala del comune su scomode poltroncine di tessuto verde ed
ascoltare. D’altronde non aveva molto altro da fare quella sera, quindi si
affrettò a prendere il tram. La macchina di ferro arrivò con un paio di minuti
di ritardo, strisciando sorniona sulle rotaie. Provava sempre un senso di disagio nei mezzi
pubblici: si sentiva costretto, senza via di scampo, a dover stare con
estranei. Lo telefonò un amico, per scambiare due chiacchiere, ma la
conversazione fu il più formale e minimale possibile. Aveva il timore che gli
altri stessero ascoltando e si vergognava molto per ogni sillaba pronunciata.
Quindi inventò una scusa e chiuse la conversazione di fretta. Sapeva bene anche
lui quanto fosse folle tutto ciò, ma non era mai riuscito a superare le sue tante
piccole fobie. Strinse il sostegno quando il tram curvò un po’ ferocemente e si
preparò ad uscire. Messo l’ultimo passo verso le porte, incrociò per sbaglio lo
sguardo di una ragazza. Furono un paio di secondi di passione, un dialogo
misterioso e muto, fatto di piccolissimi gesti, normalmente trascurati. Strinse
la mano nella tasca, lei si increspò il vestito, si accesero entrambi i volti,
ma si aprirono le porte e lui uscì. Non è mai stato bravo a cogliere quegli
attimi, non si è mai sentito all’altezza.
Camminò per qualche minuto, mentre il
cielo lo schiacciava come un coperchio di piombo. Quel cielo bucato dai palazzi
e impallidito da gelide nuvole bianche. Non lo guardava, fingeva non esistesse
e si distraeva ricordando vecchie baldorie e guardando il cellulare. Notò che
anche nei marciapiedi sentiva un certo disagio: doveva ancora avere a che fare
con estranei, ma per pochi secondi. Che fare? Sorridere? Ignorare? Vada per
tenere gli occhi bassi: d’altronde ad altezza uomo non c’era che indifferenza,
in su non uno scorcio di azzurro, quindi tanto valeva guardare dove mettere i
piedi. Arrivò al comune e si fece indicare la sala conferenze da una ragazza
molto pimpante e gentile. Salutò un paio di conoscenti, scambiò due risate e
prese posto. Le luci dopo poco si smorzarono e arrivarono gli invitati,
acclamati da folti applausi. Una giornalista di fama presentava il suo nuovo
libro su un filosofo tedesco, ma purtroppo si capiva ben poco di quello che
diceva.
Era ormai da un’ora che se ne stava seduto
su quella sedia, a fissare la stanza dalla stessa identica prospettiva. Vedeva
lo sfondo appiattirsi sempre più su se stesso, perdendo profondità. Così gli
angoli diventavano meri giochi di ombre che non parlavano più di spazio, ma
solo di un plumbeo silenzio. L’interlocutrice andava avanti a parlare e lui la
ascoltava ormai con disinteresse. Le parole risuonavano farfuglianti nei suoi
timpani e ciò che capiva non era che nebbia fastidiosa. Lui stesso dopo un po’
iniziò a tremare, dai piedi alla pancia fino agli occhi, a ritmo con le parole
che con strazio intonavano la nenia penosa. Vibrava come rumore bianco, si
sintonizzava col mondo con la frequenza sbagliata, si sentiva isolato da tutto,
solipsista, naufragava sempre più in fondo. Voleva con tutto il cuore uscire,
andarsene, sentire l’aria e il sole aprigli il petto e abbracciare gli uccelli
e lavarsi il viso. Ma non ci riusciva. Non sapeva perché, ma sapeva che non ci
sarebbe mai riuscito, perché le catene gli erano fin nel midollo serrate.
Allora ascoltava quest’assurdo, lo assecondava, lo nascondeva e lo accudiva
sotto buie coperte e mai riusciva a guardarlo negli occhi. Veniva letteralmente
divorato da se stesso mentre il suo viso rimaneva grigio, impassibile, a
fissare la stanza che gli si schiantava sul naso. Si appesantiva la gola mentre
la schiena si incurvava. Pareva che il suo corpo volesse scomparire,
vaporizzarsi, non essere visto. Pareva volesse comprimersi in un minuscolo
punto, schiacciato dalla stanza.
-Devo combattere, ma come fare? La mia
mente è il mio boia dunque devo spegnerla. Suicidio? Non ne sono in grado, ci
vorrebbe troppa lucidità. Voglio ancora vivere, ma non voglio rimanere
assopito. Devo svegliarmi. Come fare? Come farebbe un altro? Dio, gli altri mi
stanno vedendo. Come mi vedranno? Non guardarli, altrimenti capiranno che vuoi
sapere come ti vedono. Ma cosa pensano di loro stessi, loro? Pensano almeno? O
sono solo parte dei muri? Sono decorazioni, allucinazioni mutevoli che stanno
spingendo le pareti contro di me? Basta! Perché prepari il collo sul logore
ceppo? Reagisci, ti prego! Come facevano quei versi… Quelli che avevi scritto
anni fa?
“Lungi
da ogni dubbio, tutto ha ora il suo posto
E
giro innamorato e danzo
L’attimo
che gesta ogni speranza.
Un
valzer che presto smarrirò nel penoso oblio.
E
tu, che sei nella notte nera,
Non
sai dove trovarlo.
Ora
sono io che gioco come un bimbo
Che
ancora il senso della vita
Non
ha scordato.
Ma
sappi che puoi lasciar ogni lamento
E
tornare gaio al ballo dell’anima
Perché
non c’è cella qui di cui tu non sia il costruttore.” - .
La stanza aveva improvvisamente ripreso volume,
tutto si allargò, si diffuse la realtà, gli altri parevano vivi e la
giornalista diceva cose sensate. Ora vedeva meglio, tutto pareva aver ritrovato
senso, poteva essere letto in qualche modo, come mettere a fuoco l’obbiettivo. Si
sentì il sangue bollire in corpo, si guardò le mani pimpanti e sorrise. Tutto
però durò ben poco, perché tornò cieco, muto e sordo. Tornò un puntino in un
universo che si mischiava come inchiostro nell’acqua. Era tornato quest’opprimente
senso di assurdo.
-Non ce la posso fare, sto soffocando,
come faccio ad uscirne? E’ troppo difficile, qualcuno mi deve aiutare, ma chi?
Non c’è più nessuno, ci sono solo io! Ho un ricordo però, quella volta ti
dissero “Il panico lo combatti solo accettandolo e prendendoti in giro”. Ok
allora fallo! Su, guarda questo pezzente che si piange addosso e si dimena,
guardalo in tutto il suo pietoso egocentrismo. Sei in un mare e stai affogando,
senti l’acqua che ti entra nei polmoni, la salsedine che ti brucia i bronchi?
La senti la vita scivolarti come sabbia tra le mani? Sei questo ora, sei un
mucchietto di ossa che si squagliano al sole. Stai delirando, annaspando per un
briciolo di senso, aggrovigliato da tutte quelle ombre scomposte. Hai però
appena vissuto un attimo di realtà, poco fa, ricordi?! Come fa a ricordarlo?
Come fa ad essergli chiaro cosa sia “poco fa”? Il tempo è un’intuizione, viene
dalle esperienze: capisci che il tempo va avanti solo perché il sole si sposta,
perché l’aria soffia, l’acqua scorre, e sempre nello stesso ordine. Ma cosa
credi che capisca adesso? Che certezze ha che il tempo esista? Solo i suoi
pensieri potrebbero, ma questi vanno dal primo all’ultimo? Sono ordinati
davvero? O sparsi o contrari o vanno a due a due o si ripetono ogni tanto per
minuti interi, o avvengono in un istante? Chi lo sa. Io sto vivendo il tempo
dei miei pensieri ora, e vanno e vengono e forse sono passate ore nel mondo,
forse secondi. Non ti deconcentrare però, devi pensare alla realtà, guardala, è
lì intorno a te!
Basta, dovete fare silenzio tutti quanti!
Lasciate che io prova ora. D’ora en
poi chiamerò per nome questo assurdo, questo bollire dell’anima… “Dora”. Guardatela negli occhi: quei tuoi
demoniaci occhi verdi, occhi di Minerva. La cosa che più odia è guardarla fissa
senza paura. E’ più timida di quanto sembri: dalle ombre pare una Chimera
famelica, ma vedete? Non è che una fanciulla nuda che cerca un velo con cui
coprirsi il corpo. Ti ho staccato la testa e ora trionfo come Davide su Golia.
Ahi questa è una battaglia antica, originaria, dell’uomo contro la sua natura.
Spero almeno che qualcun altro possa capire di cosa si tratta aver meno il
senno, sentire lo scontro colossale tra caos e ordine. Anzi ne sono certo, perché
ricordo quello scrittore…
“Voi che soffrite, voi che vegliate,
Misero gregge senza una meta,
Battelli senza stella e senza sorte –
Stranieri eppure a me così congiunti,
Voi ricambiatemi il saluto!”
Sì, proprio lui, ti ricambio il saluto, e
ora troviamo entrambi conforto. Possiamo vincere, perché il dolore è una nostra
creatura: non siamo prigionieri se non di noi stessi-.
Così la stanza tornò aperta, luminosa,
accogliente. Se ne andò dopo una mezz’ora, salutando gli amici con una
tranquillità disarmante. Gli chiesero cosa avesse, perché sosteneva ora gli
sguardi come mai prima e la voce pareva morbida e stentorea. Negli anni a
venire riuscì a cogliere degli attimi fuggenti, nonostante Dora ogni tanto
tornava a fargli visita.
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